Laga 1987

Poco da raccontare, in definitiva. O così mi sembra. E' sempre così, che quando fila tutto liscio, sembra che non ci sia niente da dire. Ci sono solo un sacco di foto. In effetti, più casini ci sono meno foto si scattano. Vero è che l'anatomia di una disfatta dà sempre più soddisfazione del racconto di un trekk riuscito alla grande. Almeno a chi legge. Poi, a pensarci su, di cose ne sono successe, eccome. A cominciare dal perché e come siamo arrivati un giorno prima. Va beh, ma andiamo per ordine. Intanto, quello che si inerpica in questa specie di giungla sopra Colle di Spelonca è Giovanni. Quello dietro è Aldo. Fanculo adesso non cominciate con he he he Aldo Giovanni e Marco he he. Aldo Giovanni e Giacomo all'epoca stavano ancora ciucciando il latte ok? Comunque si è aggiunto Giovanni. Arrampicatore, avventuriero per quel poco che possiamo noi tutti se appena lo vogliamo e fotografo professionista. Le foto sue sono quelle che non c'è lui, tranne poche. Insomma, quelle buone. Le altre sono mie. Come questa. Ma tant'è.

A Giovanni la Laga poi doveva essergli entrata nel cuore, e se vuoi smetterla con l'idea cogliona di vivere in un tempo e in un paese, puoi guardare l'incredibile reportage che, conquistatasi la fiducia degli indigeni ostili, è riuscito a mettere insieme...

http://www.giovannigalardini.com/reprtage/repr005/rep005_1.htm

Ah, se ti va, puoi aprire la mappa e seguire il nostro trekk: itinerario celeste. Cartografia a parte, come starà una falena da un etto e mezzo nella zuppa liofilizzata? E come fa a 2000 metri, Macera della Morte, per cambiare, all'aperto, come fa dicevo, una candela a stare accesa fuori dalla tenda? Questo non ce lo siamo chiesti nessuno dei tre, e invece avremmo dovuto.

Perché pochi minuti dopo che siamo a letto si scatena l'inferno, tanto la Laga senza diluvio non si ha mai il bene di farla, è successo solo nel 2001 che quei quattro potti che portavo fuori al Padreterno devono avegli fatto pena. Ma tornando al 1987, la nostra tenda è da mare perchè non ne avevamo trovata un'altra a tre posti e in più piantandola all'ultimo momento non c'eravamo accorti che stava in un leggero impluvio e insomma dopo pochi minuti eccoci con due dita d'acqua che corrono veloci ed allegre sotto il catino. E allora fuori, a venti minuti sotto di noi c'è un capanno per pastori, in muratura, con tanto di tetto. Ma... Una trentina di occhietti gialli ci fissano dal buio, sotto l'acqua battente. E ci tocca camminare spalla a spalla, a triangolo, bastoni in pugno e più ci avviciniamo al capanno e alle pecore e più quelli si incazzano e denti e ringhi e noi coi bastoni eccetera eccetera il solito truculento repertorio degli incontri coi cani sui monti della Laga. Fino a che al capanno, chiusi dentro, sdraiati sul cemento, e solo a mezzanotte tornano i pastori che erano andati a donne giù in basso e noi ci prende un colpo che eravamo appena addormentati e loro a sentire Celentano fino a tardi alla faccia della vita bucolica. Un miliardario di Ascoli con le pezze al culo e tre quattro schiavi iugoslavi. Scopriremo il giorno dopo che è un tipaccio ospitale ma intanto non si dorme.

Quello con la faccia spiritata sono io, l'altro è Aldo che casca di sonno ma io e Giovanni vispi come grilli.

La notte non sarà stata il massimo ma non capita tutti i giorni di svegliarsi così. I pastori dormono ancora alla grande tranne uno schiavo iugoslavo. Ci racconta dell'orso. Già, perché non ve l'ho detto, ma io il giorno prima avevo visto le impronte dell'orso. E dài, eh, e che sogni? e commenti vari dei due miscredenti ma un orso, anche nanetto come il nostro Marsicano, resta pur sempre un orso e le impronte sono diverse da quelle di un grosso cane. E lo schiavo iugoslavo ci racconta insomma che se ne stava a fare pipì in sul far della notte davanti al capanno quando fra il lusco e il brusco gli si para davanti l'orsetto (ma i cani? «cani zitti, loro paura») e lui scappa dentro e si barrica dentro scusate i particolari senza nemmeno pensare a rimetterselo a posto nei pantaloni con le conseguenze del caso. Però a lui l'orso non dà fastidio perché mangia una pegòra sola e invece il lupo ne sgozza un sacco e una sporta e se viene l'orso lui dice «pegòra coltello alla gola, mangia orso! mangia!» e se ne sta in pace perché quello quando ha fatto se ne va

Rinfrancati dal racconto, pensando alla prossima notte da passare in tenda, ce la prendiamo comoda. La fonte getta poco e per riempire sei borracce non ci vorrà meno di un'ora, poco male, aspettiamo che i pastori si sveglino e scattiamo foto su foto. Oggi tappa breve, dato che dobbiamo accamparci dove troveremo l'acqua, che è il vero problema di quest'Alta Via che ci stiamo inventando. Anche coi cani iniziamo a familiarizzare, specie con quelli sotto i 15 chili. A vederli grandi e grossi e pieni di denti non lo diresti, ma da piccoli i Maremmani sono proprio così... belli da sembrare gatti.

Il bastone, il sasso la fame. E alla prima malattia, l'abbandono nella cattiva stagione. Per un cane da pastore la vita è una lunga strada in salita. E comincia presto...

 

Cavalli da carne allo stato brado; Giovanni in avvicinamento Aldo che gli regge il bastone.


Ah, dimenticavo...il giorno prima, a Cresta Piangrano, il rombo di un elicottero. Ci spolmoniamo a correre, pensando a un incidente, per dare una mano. Ma si portano solo dei tubi. Gli addetti alla trivella, stanno scavando in zona di protezione integrale. Sulle loro tute c'è scritto "AGIP". Dai pastori salta fuori una storia di strade abusive, trivellazioni abusive e tutto il repertorio dell'era Craxi. Ovvio che, appena a tiro, scattiamo e poi facciamo copie delle diapositive sulla trivellazione - che speriamo abusiva - e scriviamo un articolo che inviamo a più di 40 riviste, fra cui Airone, Bella Italia e Nuova Ecologia, tanto per non fare nomi e cognomi. L'articolo è pubblicato solo dalla rivista del Club Alpino Italiano: la redazione capisce in che pasticcio ci siamo messi noi citrulli e, sua sponte, pubblica senza i nostri nomi...

La montagna anche quando non succede nulla non è che sia un posto come tutti gli altri.

Intanto perché non c'é niente da fare. Non puoi leggere un libro perché pesa e nello zaino non l'hai messo. Non c'è corrente elettrica, quindi niente computer. Poi c'è un gran silenzio e anche tu non è che muori dalla voglia di fare conversazione. Se non sei un pastore però puoi sempre lavarti che non pare ma è già una gran cosa. Se invece sei un pastore ti lavi solo a fine stagione e ti sei perso anche questo diversivo. Ma non è colpa di nessuno. Nemmeno mia.

In compenso, per fare le cose più stupide ci vuole un sacco di tempo, che così tende a passare comunque. L'acqua la devi prendere con le borracce e se ne usi tanta ci vogliono più viaggi. Poi c'è una ben nota legge fisica per cui l'acqua, salendo in quota, bolle a temperature più basse. Tuttavia questo non significa che bolla prima, come scritto sui manuali, dato che si cucina su fornelletti microscopici che non si riesce mai a riparare dal vento.Anche preparare la colla quotidiana per cena ha i suoi momenti di emozione, per via degli insetti che ci cascano dentro e anche perchè se ti cade la cena per terra è un vero casino. In montagna la roba da mangiare te la porti in spalla, pesa ed è rigidamente razionata. Comunque, la cosa più eroica rimane mangiare quello che ti sei riuscito a cucinare.

Poi si potrebbe dormire, e in effetti di giorno ci si riesce benissimo. Non un vero dormire, piuttosto una sorta di coma vigile, direi, e mai per più di quindici minuti filati. I sensi sono all'erta, di giorno e di notte. Si finisce per appisolarsi un po' dappertutto, ma sempre con un occhio solo. La notte si dorme meno. In questo senso direi che si finisce per assomigliare agli animali.

Se preferite, che si torna un poco animali. Per chi è già bestia di suo come me è meno difficile che per altri. Io ad esempio dopo mangiato ritengo indispensabile schiacciare un sonnellino. Mica tanto, ma quell'oretta me la dormo volentieri. Il fatto che non ci riesca che un giorno sì e uno no dipende solo dalla mia indigenza cronica, dai ritmi di lavoro degli altri e da una certa resistenza generale insita nelle cose. La notte che ci si preparava, quel lungo pomeriggio sotto Pizzo di Sevo, non sarebbe delle più riposanti: il terreno - a dispetto del toponimo "Iaccio piano"- aveva la sua discreta inclinazione come si vede anche dalla foto e rotolammo tutta notte gli uni sugli altri. Il fatto che comunque fosse il posto più pianeggiante dei dintorni non è che ci abbia consolato più di tanto. Anche l'orso fece la sua comparsa, sotto forma di uno scarafaggio gigante, piuttosto rumoroso, sotto il catino della tenda: traumatizzati dai racconti del pastore, non tardammo a trasformarlo in un inquietante plantigrado alle prese con i nostri magri rifiuti. Per fortuna l'orso aveva sicuramente molto di meglio da pappare e la notte durò poco: una tappa molto lunga ci separava dalla fonte successiva e il cicalino dell'orologio, alle 03:00 ci trovò svegli e ammaccati nei sacchi a pelo

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All'alba manca ancora un'ora o due ed ecco i nostri eroi a riempirsi la pancia d'acqua, dopo aver riempito le borracce fino all'orlo, con una certa invidia per i cammelli data la fila di aride creste che li attende.

Cima Lepri ci sovrasta ancora come una massa buia e iniziamo a camminare. O meglio, i miei due amici inziano a correre, cosa che mi fa andare su tutte le furie. Ho già spiegato il giorno prima, con dovizia di particolari, la necessità di evitare partenze brucianti in salita, i problemi dell'acidosi lattica e - vista la tappa - dell'eccessiva sudorazione dato che non avremo da bere tutto il giorno. Inoltre, a volerla dire tutta com'è, anche allora non ero esattamente un cuor contento e comunque ho sempre sopportato piuttosto male che si mettesse in discussione la mia autorità. Insomma, non ho mai detto di avere un buon carattere o no? Scoppia una violenta litigata. Scoprirò col tempo che ce ne deve essere almeno una per ogni trekk impegnativo. Almeno in quelli che guido io. Sono incazzato come un'ape e quindi scatto in testa al gruppo e mi dirigo verso Cima Lepri come ne andasse della mia vita. Restato ben presto solo, mi comincio a dare una calmata.

Non che sia difficile: il silenzio è assoluto, il vento tiepido e leggero e l'alba disegna i primi pallidi riflessi sulle piccole pozze d'acqua della sella. La luce crepuscolare sale dall'Adriatico, mentre i valloni a Ovest sono ancora immersi nel buio.  

La gloria del sole del primo mattino ci coglie, ormai rappacificati, in questo autoscatto da cima Lepri.

 

 

No, non è un film di Kurosawa. Giovanni mi immortala mentre, sparsi a ventaglio, cerchiamo di trovare un qualunque punto di riferimento. Appena scesi dalla solare e isolata Cima Lepri, ci siamo infatti trovati in una nuvola gelida formata da una fortissima corrente ascensionale che soffia dal mare. Così traversiamo Monte Pelone senza mai vederlo. La sella è più larga del previsto, la cartina fa piangere e camminiamo a lungo sugli sfasciumi alla ricerca di una traccia di sentiero. Solo una volta fatto il punto e tracciato un azimut per continuare a bussola, ci rinfranchiamo con una salutare sigaretta. Ironia della sorte o isola meteorologica? Ci vorranno anni perché riesca a vedere il Monte Pelone, che poi, a dirla tutta, non è poi niente di straordinario...


Siamo semicongelati e abbiamo ormai addosso tutto l'abbigliamento di riserva che tenevamo negli zaini. Niente di nuovo sul fronte curdo.

Ecco: questa cosa bella. Non succede subito, no, in genere comincia alla prima tappa veramente dura. Che continui a camminare, dico, e rimani solo col passo, col respiro,con i piccoli fiori, con le pietre con l'erba stenta delle creste. Come un'attenzione, ma non c'è più nessuno a stare attento. Un koan, certo. Ma che parola difficile per una cosa così semplice da provare. In fondo, basta semplicemente mettere un piede avanti all'altro. Con uno zaino sufficientemente pesante. Per il tempo necessario. Semplicemente.

L'ora che volge al desio, e ai naviganti intenerisce il core. Mica sempre. 

Ad esempio, quando hai fatto una delle tappe più lunghe della tua vita e ti accorgi che l'acqua - a cui hai rivolto il pensiero per tutta una giornata - è solo una pozza fangosa. E che tu non hai mai pensato ad usare un potabilizzatore, che certo, non mancherà mai più nella tua trousse medica. Da domani. Non è un problema di difficile soluzione, anzi. Basta spararsi anche la tappa che avevi previsto per il giorno dopo. Tutto qui.

 

Ed è così che arriviamo a Campotosto a notte fonda, per fortuna è un posto turistico e c'è ancora tutto aperto e dopo una sosta interminabile al bar - e litri e litri di tutto quello che si poteva bere di fresco - ci carichiamo di nuovo in spalla gli zaini e ci avviamo al "campeggio" comunale, uno spiazzo a tre chilometri dal paese (effettivamente sentivamo il bisogno di una passeggiata) dove crolliamo, avvolgendoci nel telo della tenda, senza neppure la forza di montarla, fra cartacce fazzolettini profilattici e i piatti di plastica dei pic-nic.

Che finale impoetico, direte voi. Bè, torniamo alla prima pagina: per chi legge non sarà un gran che, ma per noi fu una gran cosa. Avevamo fatto un record personale di percorrenza con gli zaini da carico; avevamo finalmente traversato la Laga - l'imprendibile Laga - e l'avevamo traversata in soli tre giorni, non so se mi spiego; poi nessuno si era fatto male; infine, avevamo potuto concludere che eravamo una gran bella squadra, che ci trovavamo bene insieme e ci attendevano certo grandi imprese. Che noi sapessimo, eravamo i primi ad aver fatto la traversata. Insomma, sarà anche un finale impoetico ma a noi andava benissimo.

Non che pensassimo nulla di tutto questo, quando ci siamo buttati giù nel campaccio. Non credo che pensassimo proprio a niente. Comunque cominciammo a pensarlo il giorno dopo quando si decise che Giovanni, che aveva più la faccia da bravo figlio, avrebbe fatto autostop per recuperare la macchina lasciata a Colle di Spelonca e Aldo ed io, buoni buoni, ce la saremmo presa comoda al bar a Campotosto. Birra di prima mattina, sogni progetti e illusioni sul tempo a venire. E sentirsi così assolutamente in pace, ai tavolini di un bar, sulla piazza di un piccolo paese.

(settembre 2001)