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5 segni peschiciani

I “cinque segni peschiciani”, qui presentati, sono il racconto – necessariamente sintetico, ma sostanzialmente autobiografico – di un appuntamento mancato. Il riferimento evangelico che apre il ciclo - il tradimento di Pietro, tanto più imbarazzante di quello di Giuda - guiderà il lettore alla comprensione del resoconto di una delle ultime chiamate cui non ho risposto, tappandomi le orecchie, chiudendo gli occhi e strillando forte proprio come fanno i bambini quando c'è qualcosa di cui non vogliono prendere coscienza.
Nella fattispecie, all’epoca, l’evidenza di un mondo retto dal Divino Amore mi era – per varie ragioni - affatto intollerabile. E’ tuttavia universalmente noto che non ci si può sottrarre a lungo all’influsso di un amore tanto appassionato. 

L’autore, gennaio 2003.

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"Non so e non capisco quello che vuoi dire"
Uscì quindi fuori del cortile e il gallo cantò. 
(dal Vangelo secondo Marco 14, 68)
 

DUE CANI  

Alto nel cielo, lo schianto di un mortaretto ha percosso la baia. Sospirando apro gli occhi assonnati. Un altro giorno infuocato. Lungamente contemplo la trama ocra della tenda fin dove ritaglia uno spicchio di azzurro già velato di caligine.
Lentamente ricordo. Oggi è la festa di sant'Elia, patrono di Peschici, ci saranno la banda, la processione, i fuochi d'artificio.
Senza muovere la testa, brancolo fra le pieghe del sacco a pelo: orologio, costume da bagno, un flaconcino di medicinali.
Stasera gli occhi dei vecchi si veleranno di lacrime incomprensibili. E la folla chiamerà i nomi dei suoi santi di legno.
Mi giro su un fianco. Gioia continua a dormire, una maglietta sugli occhi, il mento e le guance già imperlati di sudore.
Per giorni sono andato chiedendo in cosa consiste la festa: la processione e i fuochi, rispondono.
Mi infilo con cautela lo slip ancora umido dei bagni di ieri ed esco carponi dalla tenda.
La banda canterà cadenzati motivi di fine ottocento, clarini e tromboni nella vibrante estasi serotina.
I bagni mi accolgono. Una pellicola opaca copre le mattonelle di cotto ancora asciutte. La donna delle pulizie è passata da poco. Dorme ancora il campeggio, ignaro del fervore che immagino dietro il bianco delle pareti.

Pacificato ordino un cappuccino e mi allungo all'ombra sulla sedia di plastica bianca del bar.
Di fronte a me tremula un mare di riflessi oro pallido.
Poco lontano ruzzano festosi due cani, lanciando in alto gemme di rena umida.

 

SCIOCCHEZZE

Camminiamo piano, lasciando orme disuguali sulla sabbia che il vento ha disposto in piccole dune sullo stradello asfaltato. A sinistra, tra i tavolini del bar e l'alta rete corrosa, un po' d'erba calcinata dal sole e dall'aria salsa.
Adesso i piedi affondano fino alle caviglie nella sabbia, ancora fresca sotto la superficie e fatichiamo un po’, svelti e protesi in avanti.

La sabbia si fa più compatta, siamo sul bagnasciuga.
In acqua calzati, piccole onde ci accarezzano caviglie e polpacci.
Procediamo indugiando un poco, i mignoli delle mani allacciati, affascinati dal disco palpitante del sole ancora basso: tenero e pensoso percorso di queste nostre ultime mattine interrotto a volte da pastori e greggi che vengono a mare al mattino presto e al tramonto, come senza rumore, bianchi di polvere loro e i loro cani magri che sembrano quasi un'apparizione.
Oggi non ci buttiamo subito in acqua. In silenzio, come se non valesse nemmeno la pena parlarne, giriamo inavvertitamente a sinistra, verso il faraglione, verso lo scoglio, verso i trabucchi lontani, che posso a malapena intuire.
Acqua al ginocchio: una lente d’ingrandimento per le nostre scarpe da ginnastica.
Le mie rosse, le sue blu.
Piccole onde. Riflessi dove l'occhio si perde. Parliamo con attenzione lieve, l'anima tutta presa dai giochi di luce sulla sabbia del fondo. Meglio solo correre, ridere e spruzzarsi acqua. Buttarsi a nuoto - si tocca! - lasciarsi cullare a pancia all'aria, prima che arrivi la grande ombra del faraglione.
Sotto l'alto dente di roccia l'acqua è di nuovo bassa: fa freddo, con le magliette bagnate che s’incollano addosso.

Da qui si va a nuoto. Battendo forte i piedi per scaldarci, puntiamo diritti all'altro capo dell'insenatura lasciandoci alle spalle la spiaggia di ciottoli di riporto, il piccolo chiosco, i gommoni attraccati.
Acqua sempre più verde e profonda. Ora nuotiamo calmi.
Soffiando con forza l'aria fuori dal tubo, spesso ci immergiamo, attratti da una macchia più scura, da un balenio di luce sul fondo.
Al promontorio, il mare si fa più forte. Ci teniamo alla larga dallo scoglio scuro, irto di cozze ad ogni ritrarsi della spuma bianchissima.
Nell'insenatura, il fondale viene avanti improvviso con un labirinto di massi squadrati, il nero spento e chiazzato delle cozze, quello più brillante dei ricci di mare. Più in basso, qualche raro pesce a pastura se ne sta a testa in giù, attaccato a ciuffi di alghe.
Concentrati, seguiamo il complicato disegno dei massi incastrati, gli sguardi attenti dietro le maschere. Il bel rumore regolare del respiro che attraversa il boccaglio.
Con l’acqua al ginocchio, si scivola un po’, sui sassi coperti di alghe viscide.
Ancora frastornati dal nuoto, usciamo con cautela sulla bianca caletta di sassi, angusta e riparata: legni secchi dappertutto, una latta sfondata, un pezzo di rete aggrovigliato ad un paio di grossi tronchi argentati, una parete di arenaria bianchissima, gessosa, di consistenza friabile, impossibile da risalire. In alto, i pini scuri contro il cielo innocente del primo mattino. Noi due accucciati a cercare sassolini e conchiglie dapprima ciarlieri, poi un silenzio sempre più pesante.
Di solito abbiamo sempre voglia di dire e ascoltare, andiamo avanti a parlare per ore. Ma nello stomaco, adesso, uno straniamento, uno sfarfallio, una ignota fibrillazione dell'anima. Qualcosa di piccolo. Come di bianco.
Ci guardiamo inquieti. Eppure ho raccolto una piccola conchiglia forata. Ha un foro minuscolo, rotondo come quello di un tarlo.
«Questo posto non mi piace» dice lei.
«Non piace molto neanche a me: andiamo via, tanto ormai sarà ora di rientrare».
«Sembra ancora così presto. Comunque è meglio rientrare».
«Non ho l'orologio però...».
«...Sì, il sole è già alto...».
Ci tuffiamo.
Bollicine.
Adesso è tutto più faticoso. Nuotare contro mare, ora, e l'onda è più netta e decisa.
Insolita e sciocca mi prende la paura dell'acqua, scura che non si vede più il fondo, le ombre ormai fatte d’indaco nitidissimo, più intenso per la luce del sole.
Assurda e incalzante paura di poter essere mangiati.
Nuoto nervoso, quasi con stizza. E sento che anche lei ha paura. A tratti mi stringe forte la mano sott'acqua. Inizio a perdere colpi, mi è venuto il fiatone.
Meduse.
Sembrano più grandi, ma è solo la maschera. Decine di meduse.
«Quelle rosse come la buccia della cipolla sono le più pizzicùse» ha detto il bagnino.
Provo a calmarmi. La piccola conchiglia bianca forata ondeggia tranquilla, candido talismano tra il vetro della maschera e l'acqua.

Davvero sciocco aver paura di un mare appena mosso a mezza mattina, sotto un cielo bianco e fermo.
Con sollievo tocchiamo la spiaggia. Si scherza, si ride. Ci si mostra tranquilli, quasi a convincere l'altro che ha capito male, che è stato tutto un malinteso.

Ma torniamo al camping senza più nuotare, su in fretta per il sentiero di ciottoli e tavoloni di legno.
Ce lo racconta Piero, il r
agazzo del bar, prima di cena.

«In quella caletta - dice - è stato a lungo cercato il corpo di una bambina morta di cattiva morte; ancora si possono sentire i suoi lamenti, specie se si passa davanti dal mare, a volte si sente persino dalla pineta su sopra; a noi qui non ci piace andarci, anche se è buono per pescare il polpo...».
«Non ci devi credere a queste sciocchezze di pescatori - dice la sua ragazza - Non c'è niente di niente sulla spiaggetta» dice ancora.

«Ci vediamo stasera alla festa, sei il solito scemo».
Poi guarda un poco verso i trabucchi lontani.
Ma subito sorride, indica Piero, scrolla la testa e se ne va.
Mentre parliamo appendo una piccola conchiglia bianca al cordino dei miei occhiali da sole.

PALLONCINI

Piazza di notte. Giardinetti, panchine, palme. Grandi palme e pini marittimi. E voci, capannelli di gente che ondeggia in attesa davanti al chiosco dell'orchestra. Qualcuno sta provando l'amplificazione. Per i fuochi c'è ancora tempo. Troviamo una panchina un po' in disparte e ci sediamo. Le piante ci riparano dalle luci. Ascoltiamo grati la penombra e il fresco. Fresco il metallo tinto di verde, fresco il collo di Gioia sotto le mie dita, la lattina di birra nella mia mano che ciondola dalla panchina. Mi lascio cullare dal brusio, dal vino bevuto, dalla dolcezza dell'aria…
Strappo la linguetta alla lattina e vedo arrivare Carmela. Ci saluta espansiva e subito siede accanto a Gioia. Non accenna neanche alla conversazione nel bar, forse l'ha già dimenticata. Si mangia le unghie, parla in fretta, accalorandosi. Racconta del cantante, un compatriota partito come tanti dalla Puglia senza arte né parte e che in America ha fatto fortuna.
« Per la gente di qui è un idolo, è naturale, rappresenta la speranza di potercela fare, a lei però non gliene frega niente: è solo un coglione, basta guardarlo - di tanto in tanto si tormenta coi denti le unghie della mano destra - Piero invece è attaccato a queste cose, come tutti qui, del resto. Come si vive fuori, lui non lo sa e non lo vuol sapere, non si è mai mosso da Peschici, stasera abbiamo litigato, non per questo, non per il cantante, voglio dire…».
Riprende fiato e si ferma per accendersi una sigaretta. Cerco di ricordare se l'ho vista fumare altre volte. Lei guarda fisso la fiamma dell'accendino. Solo per un attimo rammento il calor bianco del pomeriggio e i cattivi pensieri nell'acqua al mattino, mentre mi scende in gola un sorso di birra troppo fredda. Gioia ascolta Carmela e si stringe a me. Le appoggio la mano sulla spalla, tiepida sotto il vestito di lino celeste.
«Ci frequentiamo da anni - sta dicendo Carmela - e abbiamo vissuto insieme tutte le prime esperienze. Alle nostre famiglie questa storia proprio non va giù, perché io ho sei anni più di lui e qui in paese tutti lo sanno - si arresta per fumare e riprende - e poi, sai, sono stata in Germania, a studiare tedesco e a lavorare, e in Inghilterra per via dell'inglese, adesso d'estate faccio l'interprete al villaggio turistico giù alla baia. Con quello che guadagno in sei mesi ci tiro avanti tutto l'anno e l'inverno posso andar via, un anno di qua, un altro di là, quest'anno voglio andare in Australia, che qui non mi ci posso più vedere. Lo capisci, no?…».
Forse inizio a sentire un po' fresco. Forse, se avremo fortuna, stanotte si alzerà un po' di vento e stenderemo i sacchi a pelo sulla sabbia, dietro la tenda, e prima di dormire ascolteremo il rumore del mare.
Mando giù un altro sorso di birra, che intanto si è un po’ scaldata, mentre l'orchestrina comincia ad accordare senza fretta gli strumenti. La musica senza melodia mi porta lontano. Continuano a giungermi le parole di lei, ma sempre più indistinte. La sigaretta fuma tra le sue dita, la brace consuma ormai il filtro. All'improvviso, quel suo cercare a tasto pacchetto e accendino frugando nella borsa di pelle appoggiata sulle ginocchia magre, mi sembra un gesto inseparabile dalla sua persona, dal suo volto teso, dai suoi occhi accesi, da quel suo continuo parlare di Piero…
«Lui no! - afferma - lui lo ama, questo posto. Lo amo anch'io, bada bene. Il fatto è che Piero rifiuta in blocco quello che c'è fuori perché mi porta via da lui. Mi ricordo di quella volta che è andato a Firenze in gita scolastica e poi è tornato così entusiasta che per due settimane non parlava d'altro. E dire che ho dovuto faticare un sacco per convincerlo a partire, mi tirava fuori ogni giorno una scusa nuova per non andare, perché in fondo ha paura, paura di cambiare, paura di innamorarsi di un'altra donna, di una ragazza della sua età voglio dire, paura di quello che faccio io fuori, in tutti quei mesi lontana che potrei fare quello che mi pare con un altro e invece gli sono fedele. Poi, quando torno, di me, di come vivo, di quello che ho fatto e non ho fatto, di cosa sento, non vuol sapere niente, mi tappa la bocca e dice che è per fiducia, ma è solo paura. Lo capisci, sì o no, che è solo paura?».
Le parole vengono coperte dagli applausi sempre più frequenti, dalla voce del cantante che rimbomba, commossa, da tutti gli altoparlanti.

Ormai, Gioia si è sciolta dal mio abbraccio e, curva verso Carmela, le sta dicendo qualcosa. Mi alzo e vado a buttare la lattina nel cestino davanti a noi. Gironzolo qua e là senza meta: percorro un lato della piazza, mi stufo e torno per la via più breve, attraverso un'aiuola piena di cartacce. Gioia e Carmela discutono ancora, sedute una accanto all'altra sulla panchina. Mentre sto per sedermi, vedo Piero che viene verso di noi camminando di sbieco tra la gente. Ci salutiamo. Quando mi prende a braccetto, mi sento un po' a disagio. Carmela non lo guarda neppure.
Siedo di nuovo vicino a Gioia, mentre lui va a prendere qualcosa da bere.
Il cantante adesso è in completo bianco, porta un cappello in testa e fa gesti larghi verso la gente. Qualcuno tra il pubblico ha le lacrime agli occhi.
Mi pare che Carmela e Piero stiano litigando. Parlano piano, in dialetto, non capisco una parola, ma vedo da come muovono le mani che stanno litigando.
A tratti la gente si mette a cantare piano, tutta insieme.
Io e Gioia ci guardiamo. E' un po' che ci stiamo guardando.
Ci prendiamo le mani. Ci baciamo.
«Ehi - dico - Credo di essere abbastanza ubriaco!».
«Non sei male così - commenta lei - dovresti farlo più spesso…».
Carmela sta piangendo.
Senza lasciare Gioia, mi sistemo meglio sulla panchina. Ho come un ronzio dentro le orecchie.
Mi lascio scivolare sullo schienale e chiudo gli occhi.

Quando li riapro la piazza è un caleidoscopio.
Rovescio indietro la testa. Da questa posizione vedo soltanto un grande cielo nero, bellissimo.
All’improvviso vedo un palloncino verde a forma di coniglio, salire in verticale sopra le nostre teste, traversare quello spazio buio e scomparire.

 

VICINISSIMA

Il buio si è richiuso intorno all'ultima cascata di faville.
Per un interminabile istante il mio spirito si dissolve, lente meduse verdazzurro assorbite nelle profondità del cielo.
L'ultimo boato restituito per miglia dalla natura cava del promontorio.
Poi, improvviso, lo scalpiccio di migliaia di piedi. Risalgono il labirinto di vicoli e scale che portano alla piazza.
Piazza deserta per ore, di nuovo pulsante il suo ronzio di alveare.
Si trovano, si incontrano, si riconoscono. Li ho visti mangiare pizza al metro - olio e pomodoro di Puglia - seduti in strada, i minuscoli tavolini a tre gambe stracolmi di carta e lattine. Ora, assiepati nelle grandi gelaterie, le lucide superfici di acciaio e vetro ne riflettono l’immagine, raggelata in un momento di stanchezza. Ma un attimo dopo, di nuovo in strada. ‘Oggi’ è bancarelle illuminate a gas, orologi, perline, croccanti. E' giocattoli, zucchero filato e canditi. ‘Domani’ non esiste.
Mi ondeggiano intorno. Mi perdo, mi ritrovo. Guardo l'orologio, mancano tre ore all'alba.
Il fascio di luce dei fari ci regala il mondo noto, polveroso e freddo della strada di notte. Striscia bianca continua, curva, rettangolini luminosi sul parapetto di cemento.
Poco oltre, invisibili, la notte e il mare.
Lasciamo l'auto nel parcheggio esterno, camminiamo. Gioia si appoggia alla mia spalla. Solidali e stanchi, sul vialetto che porta alle tende.
A destra, in cima alla rupe, il paese. La sagoma scura di case e terrazze. Sottile, rossiccia, la falce della luna. Sopra di noi. Vicinissima. 

 

IN FRANTUMI

Erba secca accanto alla tenda e sabbia finissima. Sopra, sparsa in giro, quasi tutta la nostra roba. E' presto, ma c'è sempre qualcuno in giro che leva le tende o carica camper e roulottes.
Le sbarre sono già alzate e porto dentro l'auto, spingendola piano sul vialetto asfaltato.
Metto dentro tutto quello che mi capita sotto mano, senza pensarci troppo. Ci fermeremo a casa qualche giorno, poi ripartiremo per il Nord.
Mentre sbatto le scarpe da bagno per pulirle dalla sabbia, mi sorprendo sul viso un sorriso grato al pensiero del viaggio in Germania, ormai così vicino. Là non ci saranno storie di pescatori che mi fanno correre i brividi lungo la spina dorsale né tutta questa frenesia di fuochi artificiali.
In Germania ci sarà un cielo grigio chiaro, e pioggerella sottile. Si andrà a letto presto anche in casa di amici. Saremo in Europa, nelle case si camminerà scalzi e si parlerà a bassa voce a sera bevendo vino del Reno.
Gioia è andata alle docce. Ne approfitto per smontare la tenda: pochi gesti abituali e la sacca della tendina a cupola è infilata dietro alla leva del freno a mano. Ora però sono tutto appiccicoso e impolverato: tra meno di mezz'ora si parte e vado anch'io a lavarmi.
Le docce sono tutte occupate. Devo aspettare e il sole già pizzica. Mi guardo intorno in cerca di un po' d'ombra che non c'è.
Aspetto sotto il sole sempre più caldo. Mi metto gli occhiali.
La porta si apre e mi infilo svelto con tutta la mia roba in mano.
Il pavimento della doccia a gettone è pieno di acqua insaponata, che defluisce molto lentamente. Ma io non ho fretta. Mi chiudo dentro a godermi il fresco.
Mi levo lo slip, l'orologio, gli occhiali e appendo tutto con calma al gancio fissato alla parete, accanto alla porta. I saponi li appoggio tutti sulla macchinetta dei gettoni, poi lascio scorrere l'acqua fino a che il pavimento torni pulito e mi metto sotto. Ho molti gettoni da finire, l'acqua tiepida è magnifica, dopo poco perdo la nozione del tempo.
Non ho nessuna voglia di insaponarmi, ho solo voglia di stare così, con questo fiume di acqua dolce, né calda né fredda che mi scorre addosso.
Sporgo anche il labbro inferiore per bere un po'.
L'acqua mi restituisce una sensazione dimenticata. Quel sentirsi pulito e sicuro quando mia madre mi faceva il bagno ed ero bambino. Una piccola cosa utile e cara, piena di buon senso.
Dopo un tempo interminabile, il rumore definitivo dell'ultimo gettone. Resto lì in piedi, in un silenzio gocciolante, senza voler riaprire gli occhi.
Ora sento quasi freddo, e indugio volentieri in questa nuova sensazione. Infine allungo lento una mano, a tentoni, in cerca del grande telo di spugna azzurra che pende lì vicino.
Sento qualcosa che cade dal gancio dell'appendiabiti e un istante dopo un rumore cristallino e secco, come di vetri rotti.
Mi stropiccio in fretta gli occhi con l'asciugamano, chinandomi sugli occhiali caduti.
Guardo le lenti, le tasto, non si sono rotte.
Poi lo sguardo si posa perplesso sui piccoli pezzi di conchiglia andata in frantumi, accanto agli occhiali intatti, sulle piastrelle del pavimento.

 

 (2001)